Ai Castelli Romani i laghi sono due: Albano e Nemi. Il secondo è più piccolo, meno conosciuto e frequentato del primo. Ma forse proprio per questo il suo fascino, ammantato da un’aura di mistero, lo rende una meta da scoprire, o in cui tornare con sempre nuove curiosità.

Come si intuisce bene dalla forma del cratere, il lago di Nemi è vulcanico, si è formato in una delle ultime fasi del Vulcano Laziale. Sfatiamo subito una credenza del tutto infondata, ossia il suo collegamento con Albano. Il livello delle acque è maggiore di 25 metri rispetto ad Albano, la prova che i due specchi d’acqua non sono in comunicazione.

Nemi è poco profondo, circa 30 metri. La lunghezza massima è di un chilometro e mezzo. Nella parte occidentale c’è una spiaggetta, che d’estate è frequentata dai bagnanti più spartani, amanti della natura.

Il lago, come il paese omonimo, deve il suo nome al Nemus Dianae, il bosco sacro a Diana. Il tempio dedicato alla dea, o più esattamente quello che ne è rimasto, si trova a qualche centinaio di metri dietro al Museo delle Navi. In epoche remote il tempio era posto più in alto, proprio per metterlo a riparo dalle escursioni del livello del lago. Poi, in seguito alla costruzione di un emissario artificiale, il livello delle acque fu normalizzato e fu eretto un nuovo tempio in prossimità della riva.

Le navi romane e il Museo

Se ti affacci sul lago, dal punto panoramico su una terrazza poco fuori dal centro di Nemi, appena superato l’arco, lo vedi subito. Sono due giganteschi hangar, così appaiono da lontano, che sono decisamente fuori scala rispetto alle poche costruzioni circostanti.

È un “romanzo archeologico”, la storia delle celebri navi di Nemi (attribuite all’imperatore Caligola) racchiude molte suggestioni. È stata a lungo una leggenda popolare intrisa di mistero, si è trasformata in un vero e proprio giallo, che ha riguardato la drammatica distruzione delle due navi. Un giallo che possiamo considerare definitivamente risolto grazie alle ricerche di due studiosi locali, recentemente pubblicate in un libro.

Le leggende che dal medioevo narrano di favolosi tesori nascosti in fondo al lago, nel corso dei secoli furono alimentate e consolidate da ritrovamenti occasionali di reperti, da parte dei pescatori locali.

Il primo tentativo, nel 1446, fu seguito da numerose altre campagne di recupero, che nel corso del tempo non portarono risultati. In varie occasioni furono tratti in superficie parte del fasciame delle navi, reperti casuali, a volte anche preziosi, ma le navi continuavano a giacere sul fondo del lago, a pochi metri di profondità. Le tecnologie del tempo non consentivano di fare di più.

Solo alla fine dell’800 le campagne di ricerche appurarono la presenza di un secondo scafo e furono tratti a riva ancora una volta numerosi reperti.

Le nuove sensibilità culturali e politiche che caratterizzano il giovane Stato Italiano inducono un intervento statale. Ulteriori sondaggi e accertamenti concludono che per recuperare le navi il solo modo praticabile fosse il prosciugamento del lago, da realizzare facendo defluire le acque attraverso il condotto dell’antico emissario costruito al tempo dei Romani.

Il progetto, assai impegnativo e suggestivo, fu accolto nel 1926 dal governo fascista, con una certa enfasi. Il mito della romanità su cui faceva perno il fascismo, trovò subito un grande riscontro che fu speso per accreditare l’Italia dell’epoca come naturale erede delle vestigia e della grandiosità dell’antica Roma. L’impresa negli anni ebbe un’eco internazionale e per questo fu ampiamente utilizzata per la propaganda politica.

Il un’operazione colossale il livello del lago fu abbassato di oltre 10 metri, convogliando le acque lungo l’antico emissario. Furono realizzati due enormi binari su cui furono adagiati gli scafi e tratti a secco.

Le navi erano di eccezionale grandezza: oltre 70 metri di lunghezza ciascuna e quasi 25 di larghezza. Avevano il fondo piatto per la navigazione lacustre e una serie di accorgimenti tecnici che ne fanno due capolavori della tecnica navale antica.

Purtroppo, nella notte tra il 31 maggio ed il 1° giugno del 1944, un incendio nel Museo distrusse entrambe le navi. La commissione d’inchiesta istituita per chiarire le responsabilità dell’evento giunse alla conclusione che “con ogni verisimiglianza fu causato da un atto di volontà da parte dei soldati germanici che si trovavano nel Museo la sera del 31 maggio 44”. Studi recenti spostano le responsabilità sui bombardamenti americani. In entrambi i casi si può dire che le navi di Nemi tra sono “vittime” della guerra.

Il museo è un pezzo di architettura modera, inaugurato nel 1940. Praticamente sono due grandi spazi in cui furono inserite le navi, trainate lungo dei binari. Una volta poste all’interno furono realizzate le pareti sul versante del lago. Un museo costruito su misura per i reperti che doveva ospitare.

In seguito al terribile incendio che devastò il museo nel 1944, rimase chiuso fino al 1953, riaperto e poi di nuovo chiuso per altri 25 anni: dal 1963 al 1988.

Il museo soffre di un evidente sovradimensionamento rispetto alle due navi scafi in fumo. Attualmente sono visibili due modellini, in scala 1:5, lunghi appunto 14 metri circa, realizzati già in occasione della riapertura dello spazio museale nel 1953.

È comunque uno spazio di grande interesse, per i reperti che vi sono ospitati e per quelli che furono occasionalmente intercettati durante la costruzione del museo stesso, come un tratto lastricato dell’antica strada romana di collegamento tra la via Appia ed il Santuario di Diana, che è stato lasciato a vista divenendo parte integrante dello spazio museale.

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Negli ultimi mesi questi spazi sono stati spesso utilizzati per rappresentazioni teatrali “mobili”, realizzate utilizzando delle cuffie auricolari individuali, che lasciano piena libertà di movimento agli spettatori, che diventano anch’essi parte della scena.

L’evoluzione dell’uso di spazi così grandi può giovarsi dell’ausilio dei nuovi linguaggi di comunicazione messi a disposizione dalle tecnologie informatiche (realtà virtuale, multimedialità) e teatrali, per rendere il museo in un luogo di una narrazione ancora più evocativa.

L’emissario di Nemi

L’emissario artificiale, del VI secolo a.C., è un’opera grandiosa, soprattutto se si pensa alle tecniche utilizzate all’epoca in cui fu scavato.

1.600 metri di lunghezza, con una pendenza sufficiente per far defluire le acque, ma non eccessiva per evitare problemi di erosione delle pareti interne del cunicolo. Due squadre di scavatori, una a monte e una a valle, che hanno lavorato per anni, giorno e notte. Quella di valle ha incontrato subito uno strato di duro basalto ed è avanzata in tutto per 400 metri, prima di incontrare la squadra di monte, avvantaggiata perché alle prese con il più tenero tufo.

Il punto di incontro è segnato da un’intersezione non proprio perfetta, ma certamente sorprendente viste le tecniche del tempo.

Un sistema a discenderia, che a monte impediva di far defluire le acque con i lavori in corso, ossia un tunnel rialzato rispetto al livello del lago, che poi fu sostituito dall’apertura di un diaframma leggermente più in basso del livello delle acque, al momento dell’attivazione dell’opera.

Infine un sistema di controllo del flusso idrico, che ne regolasse la quantità, impedendo al contempo l’ingresso di alberi e ramaglie che avrebbero potuto ostruire il deflusso dell’acqua.

Nei millenni, ci sono stati crolli e smottamenti, per cui il percorso, per chi vuole visitare l’emissario, è pieno di diverticoli e vicoli ciechi.

Il tunnel è abbastanza alto, soprattutto all’inizio, con dei camini di aerazione, ma ci sono alcuni tratti, specialmente quelli scavati nella roccia più dura, che sono assai stretti, in alcuni punti l’altezza non supera il metro. Circa a metà, tanto per aggiungere un po’ di fascino, c’è una sorgente sotterranea e l’acqua invade il percorso, ma solo per 10/15 centimetri di profondità.

All’interno temperatura costante e molta umidità. Tra le altre cose si prova l’esperienza non comune di un luogo completamente buio e senza alcun rumore.

L’entrata dell’emissario si trova lungo la sponda occidentale del lago, lungo la strada sterrata che si imbocca nei pressi di una cappellina, a circa 500 metri risalendo dal museo delle Navi, in direzione Genzano.

Le visite sono possibili in occasione di iniziative del parco dei Castelli Romani o di associazioni locali.

L’Eremo di San Michele

L’Eremo di San Michele, noto anche come Speco di San Michele Arcangelo, si trova su uno sperone di roccia che si affaccia sul lago di Nemi, con viste panoramiche sul lago e suoi boschi tutti intorno. È un luogo di grande fascino spirituale e storico, intrecciato con le tradizioni religiose e la sacralità del territorio dei Castelli Romani.

L’origine dello speco si lega a tempi remoti, quando le grotte e i luoghi isolati erano scelti per il culto e la meditazione. Situato sulle pendici del lago di Nemi, in un’area già consacrata nel periodo romano al culto della dea Diana Nemorensis, l’eremo conserva tracce di un’antica sacralità, trasformata nel corso dei secoli in una dimensione cristiana. Si narra che il sito fosse usato dai primi eremiti cristiani, attratti dalla bellezza e dal raccoglimento del luogo.

Nel Medioevo il sito venne dedicato a San Michele Arcangelo, simbolo di protezione e forza spirituale. La devozione a San Michele si diffuse rapidamente in tutta Europa, trovando terreno fertile in luoghi impervi come questo, considerati porte tra il mondo terreno e quello celeste. La grotta fu trasformata in un luogo di preghiera e pellegrinaggio, attirando fedeli e viandanti in cerca di conforto spirituale.

La grotta principale, scavata nella roccia, ospita una cappella semplice ma carica di spiritualità, dove affreschi consunti testimoniano la devozione secolare. Frequentato per secoli da monaci e pellegrini, l’eremo riflette un’atmosfera di silenzio e raccoglimento. Oggi rappresenta un luogo di profonda connessione tra fede, storia e natura, mantenendo viva l’essenza di un dialogo tra uomo e sacro nel cuore dei Castelli Romani.

Le sue radici profonde nella storia e nella fede ne fanno un gioiello del patrimonio culturale e spirituale dei Castelli Romani. Al tramonto, quando il sole si immerge nel lago e il cielo si incendia di colori ardenti, l’Eremo di San Michele si trasforma in una visione: un frammento d’eternità dove sacro e natura si fondono. È un luogo in cui sedersi e ammirare il panorama, assaporando le suggestioni dei suoi segreti, sussurrati dal vento.

Per raggiungere l’eremo si può partire dall’entrata al centro storico del paese, dove un cartello indica la direzione per lo Speco. Il sentiero può risultare a tratti scivoloso, specialmente con umidità o pioggia. Ci si può arrivare anche dalla strada che costeggia il lago, proprio sotto il paese di Nemi.