L’archeologo Flavio Altamura e lo storico Stefano Paolucci illustrano il grande lavoro di ricerca che c’è dietro
In seguito alla presentazione del loro libro, L’incendio delle navi di Nemi (edito da Passamonti Editore), tenutasi il 28 ottobre, la redazione di «Castelli Romani» ha avuto l’opportunità di incontrare personalmente gli autori, l’archeologo Flavio Altamura e lo storico Stefano Paolucci. La loro ricerca ha aperto nuove prospettive su un episodio storico che ha a lungo sollecitato l’immaginario collettivo e accademico.
Questa intervista cerca di approfondire non solo gli aspetti chiave del loro studio ma anche di esplorare le principali scoperte fatte durante il loro percorso di ricerca, fornendo così una visione più dettagliata del contesto storico e della rilevanza del loro lavoro nel campo della ricerca storica e archeologica, soprattutto quella riguardante il territorio dei Castelli Romani.
Il libro sull’incendio delle navi di Nemi è stato un caso editoriale. Vi aspettavate un successo di questa portata?
Nonostante siano trascorsi ottant’anni dal fatto, o forse proprio per questo, eravamo certi che la nostra ricerca non sarebbe passata inosservata e anzi avrebbe suscitato un discreto interesse, anche perché contiene degli “ingredienti” che possono risultare appetibili sia agli appassionati di storia sia a un pubblico più generico. Dentro questo libro c’è la Seconda guerra mondiale, l’Impero romano, due eccezionali reperti archeologici e soprattutto una vicenda che si presentava come un vero e proprio cold case storiografico.
Per questo abbiamo voluto dare spazio a una dimensione anche narrativa, quasi da giallo, per non restringere la fruibilità del nostro lavoro ai soli specialisti. Anche all’estero si è parlato tanto del libro, soprattutto dopo che è apparso un articolo con una nostra intervista sul prestigioso «Times» di Londra.
Viste le conclusioni alle quali siamo giunti, che ribaltano la versione ufficiale sulla colpevolezza tedesca, ci aspettavamo forse un dibattito più vivace in Italia, ma alla fine anche qui abbiamo avuto dei riscontri decisamente positivi e di apprezzabile onestà intellettuale.
Dietro un libro così denso e articolato c’è sicuramente tanto lavoro. Cosa ha implicato in fatto di tempo, ricerche, studi, rapporti con persone e istituzioni?
Il libro è il frutto di un’indagine che si è svolta sia con i metodi propri della ricerca storiografica, sia con il ricorso ad analisi e studi di carattere tecnico-scientifico. Le ricerche d’archivio ci hanno impegnato per oltre dieci anni, ai quali vanno aggiunti i tre faticosi anni passati tra lo studio delle carte e la vera e propria stesura del testo, che ha attraversato decine di versioni prima di consolidarsi nella forma finale.
Nel corso del lavoro abbiamo beneficiato della disponibilità di numerosi enti pubblici e della generosità di molti amici e studiosi. I documenti inediti più importanti, anche di tipo fotografico, li abbiamo reperiti in Italia, in particolare presso l’Archivio di Stato di Roma, l’Archivio Centrale dello Stato, l’Archivio storico della Soprintendenza di Roma e in quello del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano fondato da Guido Ucelli, uno dei maggiori protagonisti del recupero delle navi. Ma le nostre ricerche ci hanno portato a consultare anche archivi esteri e militari, ad esempio in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
Quali sono stati gli ambiti in cui avete trovato un maggiore interesse?
Da quando è uscito il libro abbiamo notato un forte interesse da parte di associazioni culturali e appassionati locali, soprattutto per quanto riguarda l’area di Roma e dei Castelli Romani. Abbiamo anche riscontrato, con nostro immenso piacere, un forte supporto e apprezzamento da parte delle istituzioni e di numerosi ricercatori accademici.
In particolare siamo grati alla Direzione Regionale Musei Lazio, presieduta da Stefano Petrocchi, e al Museo delle Navi Romane di Nemi, diretto da Daniela De Angelis, che hanno voluto ospitare la presentazione ufficiale del volume proprio all’interno del museo sulle rive del lago. Un momento di grande emozione e soddisfazione.
Siete stati invitati a parlare del vostro libro nelle scuole?
Finora no, ma ci piacerebbe molto poterlo fare, perché siamo convinti che soprattutto ai più giovani sia importante trasmettere la curiosità e la passione per la storia di questo nostro incredibile territorio, davvero unico al mondo.
A proposito del nostro territorio, secondo voi quali sono i campi di indagine ancora poco esplorati o approfonditi a livello storico?
I Colli Albani sono un’autentica miniera per lo studio e la conoscenza dell’archeologia e della storia. Per quanto riguarda i periodi più antichi, ci sono moltissimi capitoli ancora da scrivere. Dal punto di vista archeologico la ricchezza dell’area è davvero impressionante: anche in siti già noti da secoli e importantissimi a livello mondiale, come ad esempio – tanto per rimanere in tema – il Santuario di Diana a Nemi, gli scavi e gli studi portano sempre a nuove e spesso inaspettate scoperte.
Ma anche l’età contemporanea, e in particolare il Novecento, non è da meno. Si pensi solo al periodo tra le due guerre, al fascismo, all’occupazione, alla Resistenza, alla vita nel dopoguerra: sono tutti momenti e aspetti sui quali c’è ancora moltissimo da indagare, specie a livello archivistico, perché se ne possa restituire un racconto storicamente accurato.
Dopo questo libro state pensando ad altri lavori nel solco della vostra indagine?
In realtà abbiamo già avuto modo di pubblicare alcuni studi e approfondimenti sul tema delle navi di Nemi, anch’essi scritti a quattro mani. Qualche mese fa, su invito dell’Università di Venezia, abbiamo contribuito con un saggio sull’incendio per un numero monografico della «Rivista di Engramma» dedicato proprio alle navi di Caligola e al museo di Nemi, peraltro disponibile anche online in open access.
Sulla storica rivista «Castelli Romani – Vicende Uomini Folcore» abbiamo invece presentato un saggio sulla leggenda della “terza nave” di Nemi, dimostrando l’inconsistenza delle voci sul fantomatico terzo relitto, mentre è in uscita un altro articolo con un focus sulla questione del presunto furto del piombo dai relitti, anch’essa rivelatasi totalmente priva di fondamento storico e fattuale.
Come pensate che si potrebbe migliorare la trasmissione della conoscenza della storia del nostro territorio, per una maggiore consapevolezza della funzione civile della memoria storica?
C’è molta curiosità e voglia di conoscenza tra i cittadini. Bisogna però trovare la giusta strada e i giusti modi di comunicazione per canalizzare queste esigenze, anche ricorrendo a metodologie innovative, che si rendono sempre più necessarie per coinvolgere il pubblico, specie quello più giovane.
Ma alla base occorre che vi sia una decisa volontà istituzionale e politica orientata a una maggiore tutela, valorizzazione e fruizione del nostro patrimonio culturale. Gli archivi storici comunali, per esempio, sono una ricchezza formidabile e possono svolgere una funzione primaria nello sviluppo del senso civico e nella formazione della memoria storica.
Per iniziare sarebbe quindi auspicabile che ogni singolo Comune investisse su di essi, tirandoli fuori dagli scantinati, riordinandoli e rendendoli fruibili al pubblico in apposite sedi attrezzate, né più né meno come succede per le biblioteche comunali. I risultati non tarderebbero a manifestarsi.
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