Una riflessione sulla tragica vicenda umana e politica
“Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”. È terribile questo passaggio dell’ultima lettera che Aldo Moro scrive alla famiglia nel maggio di 46 anni fa, qualche giorno prima di morire per mano delle brigate rosse dopo essere stato rapito dalle stesse in Via Fani il 16 marzo del 1978.
Sono le parole di un uomo condannato a morte, rassegnato – per come ci si possa rassegnare all’idea di una morte imminente, impartita con tremenda fermezza – che non riescono a nascondere il desiderio di riabbracciare i propri affetti, di tornare alla rassicurazione della vita quotidiana cadenzata da appuntamenti, incontri e volti.
Tutte le volte che rileggo quel passaggio non posso fare a meno di commuovermi e, allora, mi aggroviglio nei pensieri, faccio ricerca di sentimenti nuovi ed emotivi. Perché quelle parole e quella “dolcezza confusa” mi provocano un forte senso di vuoto, di impotenza.
La vicenda politica e umana del caso Moro è una storia che ha lasciato una ferita profonda nell’inconscio collettivo e che ha cambiato per sempre il corso della storia della democrazia italiana. È un dramma che definirei shakespeareano quello dei 55 giorni che, dal 16 marzo 1978, portarono alla morte di Aldo Moro. Non fu, infatti, solo violenza e strategia politica, ma anche pulsioni umane e disumane, bassezze, sangue e tradimento, complotto. Un vortice di terrore dove la pietà, il rancore e la morte si sono intrecciate fino a lastricare una discesa inarrestabile verso la tragedia finale.
Ho visto poco fa sia il film “Esterno Notte” di Marco Bellocchio che l’intervista rilasciata nel 1990 da Mario Moretti – l’unico brigatista a interrogare Moro nel covo di Via Montalcini – a Sergio Zavoli, per “La notte della Repubblica”.
La ricostruzione di Moretti del reale senso di quella rivoluzione fallita, di quei teoremi strampalati, fondati su tesi marxiste dogmatiche e forse già inutili in quel fine decennio degli anni settanta si sgretolano quando a Moretti viene chiesto un ultimo ricordo di Moro, dell’uomo Aldo Moro. Perché è proprio quando prende il sopravvento la rievocazione dell’uomo, su quella del nemico politico, che Moretti – mai pentito e mai dissociato – vacilla. Improvvisamente, non risponde. Non vuole rispondere. Tentenna per qualche istante prima di riprendere il controllo e il filo dei suoi ragionamenti.
Ecco quello che mi ha sconvolto. Pensare che Moretti, un assassino di Aldo Moro, possa portare ancora oggi la bandiera di unico depositario degli ultimi momenti in vita di Aldo Moro, dei suoi sforzi di portare la propria vita in salvo attraverso la mediazione, la vera bussola della sua esistenza.
Aldo Moro, “il professore”, un fulgido esempio di rettitudine, di alto valore dello Stato e delle Istituzioni condannato a morte da chi, come Moretti, delle Istituzioni se ne è fatto beffa e che ha, però, il privilegio di poter raccontare le ultimi argomentazioni, quiete ma sofferenti, di questo grande uomo di Stato.
Un uomo di Stato rinchiuso in cinque metri quadri, in un orizzonte costretto. Lui, che immaginava un orizzonte più ampio per il futuro di un paese, l’Italia, che ancora oggi deve molto ad Aldo Moro.
Un “uomo perbene” che non ha mai abbandonato la gentilezza, nemmeno nella prigionia, e che rappresenta un monito per tutti noi affinché la democrazia e la libertà non vengano mai date per scontate perché sono la più grande conquista del XX secolo.
Chissà cosa avranno visto “quegli occhi mortali”, quello specchio di mitezza e moderazione che non gli hanno risparmiato quella morte infame. Una morte che si è intrecciata nell’anima stessa delle Brigate Rosse, segnandone il destino irrimediabile e il crollo.