In un’operazione che segna un altro capitolo nella lotta contro la criminalità organizzata, la Polizia di Stato (Questura di Roma) ha confiscato beni per oltre 3 milioni di euro, tra cui tre immobili di pregio in Calabria e due zanne di elefante. A prima vista, una confisca come tante altre, ma il profilo dei soggetti coinvolti e la complessità delle indagini raccontano una storia ben più profonda: la ‘ndrangheta non si ferma ai confini della Calabria, ma estende i suoi tentacoli anche ai Castelli Romani.
L’operazione, denominata “Ragnatela”, ha visto impegnate per tre anni le forze dell’ordine, in particolare la Sezione misure di prevenzione patrimoniali della Divisione Anticrimine, in un’indagine capillare che ha svelato il legame tra un boss calabrese e un altro soggetto romano, entrambi coinvolti in attività criminali complesse, tra cui bancarotte fraudolente e intestazioni fittizie di beni. Il primo, residente da tempo nei Castelli Romani, è legato a una famiglia mafiosa di Gioia Tauro, mentre il secondo, un romano di vecchia data, opera da decenni in affari di usura e riciclaggio di denaro sporco per la ‘ndrangheta, la Camorra e persino la famigerata Banda della Magliana.
La Corte d’Appello di Roma ha confermato a settembre 2024 la confisca di questi beni, rendendo definitivo un provvedimento che non riguarda solo un patrimonio economico, ma un intero sistema di potere criminale.
Il boss calabrese e l’espansione nei Castelli Romani
Il cuore dell’indagine “Ragnatela” risiede nella figura di un boss calabrese la cui carriera criminale è strettamente legata alla potente famiglia Molè di Gioia Tauro. Parente di Rocco Molè, assassinato nel 2008 in un regolamento di conti mafioso, l’uomo ha sfruttato i legami familiari per costruire un impero immobiliare e patrimoniale, nascondendo la provenienza illecita delle sue ricchezze grazie a un sofisticato sistema di intestazioni fittizie.
Il boss ha vissuto per diverso tempo ai Castelli Romani, lontano dalle terre d’origine, ma continuando a gestire affari di rilevanza nazionale. Le indagini rivelano che i proventi di attività come la bancarotta fraudolenta e il riciclaggio di denaro venivano reinvestiti in modo sistematico, creando una dissonanza evidente tra i redditi dichiarati e il patrimonio realmente posseduto. È questa sproporzione a essere il cuore della sentenza della Corte d’Appello di Roma, che ha giudicato “ingiustificabile” l’origine di tali beni, confermando così la confisca definitiva.
L’altro volto dell’operazione: un romano al servizio delle mafie
Accanto al boss calabrese, emerge la figura di un romano di vecchia data, protagonista di attività criminali dagli anni ’70. Questi non è un nome qualunque: già noto per i suoi legami con la Banda della Magliana, ha continuato a operare nel settore dell’usura e del riciclaggio, facendo da ponte tra le diverse organizzazioni mafiose del sud Italia.
La sua lunga carriera criminale l’ha visto passare dall’essere un semplice “facilitatore” per la Banda della Magliana a un perno del riciclaggio di capitali illeciti per conto della ‘ndrangheta e della Camorra, creando una rete di contatti e affari che si estende ben oltre il Lazio. Nonostante la conferma della confisca per il boss calabrese, questo secondo soggetto ha presentato ricorso in Cassazione, facendo slittare la sentenza definitiva sul suo patrimonio.
Questa parte dell’operazione “Ragnatela” sottolinea come la criminalità organizzata abbia sviluppato una rete complessa e interconnessa a livello nazionale, con ramificazioni che toccano realtà apparentemente estranee a certi contesti criminali, come i Castelli Romani. L’evoluzione di queste organizzazioni non si limita più solo alle tradizionali regioni di appartenenza: la mafia si è adattata e ha ampliato i propri affari, infiltrandosi in contesti economici e immobiliari insospettabili.