“Necessaria la sinergia tra pubblico e privato per la tutela e valorizzazione dei beni culturali”
Abbiamo avuto modo di intervistare Francesco Petrucci, architetto e storico dell’arte, dal 1998 ricopre la carica di Conservatore del Palazzo Chigi di Ariccia. Direttore della rivista “Castelli Romani – Vicende Uomini Folklore”, dal 2002 è professore affiliato di storia dell’arte presso il College of Human Science, della Auburn University (USA).
Si occupa di ricerche inerenti a pittura, scultura, architettura e arti decorative del Seicento e Settecento romano. Ha pubblicato numerosi articoli su riviste scientifiche, cataloghi di mostre in Italia e all’estero, libri e monografie.
Architetto Petrucci, il suo interesse per Palazzo Chigi viene da lontano, visto che quarant’anni fa la sua tesi di laurea fu proprio su questo.
In effetti ho l’impressione di occuparmi di questo palazzo da sempre. Tutto iniziò attorno al 1980 con i miei studi universitari in architettura, prima sostenendo nel luglio 1982 un esame di restauro sul cortile interno, poi conseguendo nell’ottobre 1983 la laurea con una tesi di storia e restauro proprio sul palazzo, relatore il prof. Sandro Benedetti.
Subito dopo, l’assessore alla cultura del Comune di Ariccia, Vittorioso Frappelli, mi offrì l’opportunità di pubblicare in miei studi universitari confluiti nel libro “Palazzo Chigi ad Ariccia”, edito nel 1984 da Arti Grafiche Ariccia, da tempo esaurito e oggi introvabile.
Qual è il percorso che l’ha portata all’attuale gestione di Palazzo Chigi?
Avendo maturato rapporti di cordiale conoscenza con il principe Agostino Chigi, fui coinvolto nel gennaio 1986 come consulente scientifico dall’amministrazione comunale, su impulso dell’assessore alla cultura e patrimonio Emilio Cianfanelli e del sindaco di allora, Carlo Staccoli, nella trattativa per l’acquisto del palazzo, che si concluse il 29 dicembre 1988.
Contestualmente, avevo vinto il concorso come responsabile dell’ufficio tecnico comunale. Questo mi consentì di seguire direttamente i lavori di restauro dell’immobile ed effettuare un inventario dei beni mobili della dimora, che ho costantemente aggiornato nel corso degli anni, fino a oggi, registrando anche le numerose nuove donazioni, ottenute tramite miei contatti personali.
Ho effettuato negli anni ricerche in biblioteche e indagini documentarie presso l’archivio Chigi, in deposito alla Biblioteca Apostolica Vaticana, al fine di acquisire informazioni sulle opere e sugli autori, tra pittori, scultori, artigiani, ma anche comprendere la destinazione originaria delle sale e la funzionalità di una dimora storica.
Questi studi, che ho pubblicato in riviste scientifiche, cataloghi di mostre e libri, sono stati fondamentali per un corretto riallestimento degli ambianti del palazzo. Tutto il resto è dipeso da contatti con studiosi – a partire da Maurizio Fagiolo dell’Arco mio vero maestro e nostro primo donatore – collezionisti, mercanti d’arte, istituzioni museali, che ho sempre coltivato.
La positiva esperienza di Palazzo Chigi non è così diffusa in Italia, perché secondo lei? E perché si stenta ancora a entrare in una logica di sistema? I Castelli della Loira, per fare un esempio, che hanno di più dei Castelli Romani?
In Italia, solo il Fondo per l’Ambiente Italiano (FAI) è riuscito ad acquisire, restaurare e aprire al pubblico numerose dimore storiche mettendole a sistema. Lo Stato per i suoi beni fatica a creare rete, anche se la riforma Franceschini ha dato un impulso in tal senso. Poi ci sono enti locali virtuosi e le lodevoli iniziative di alcuni privati, come Franco Maria Ricci al Labirinto della Masone.
I Castelli Romani – che vantano un enorme patrimonio di ville storiche, palazzi, castelli, monumenti, aree archeologiche e naturalistiche – soltanto negli ultimi anni sembrano essersi svegliati da un lungo torpore, come dimostrano le acquisizioni di Palazzo Sforza Cesarini a Genzano e delle Scuderie Aldobrandini a Frascati, l’apertura di musei archeologici, partendo dall’esempio del Museo Civico di Albano fondato nel 1973 dal compianto Pino Chiarucci, ma molto resta da fare.
Bisognerebbe attivarsi perché monumenti come Palazzo Ruspoli a Nemi o le ville tuscolane vengano restaurati e aperti al pubblico, creando sinergie e accordi con i privati. Soprattutto le dimore storiche dei Castelli Romani, pubbliche e private, dovrebbero consorziarsi tra loro (una fondazione?) per approdare a programmi culturali comuni, in modo da creare rete.
Nella gestione dei beni culturali in Italia quali sono le cause e le resistenze al cambiamento. Conservazione e fruizione del nostro patrimonio sono forzatamente in contrasto. I responsabili ripetono sempre, e giustamente, che non esiste valorizzazione senza tutela. Tuttavia, parimenti, non esiste tutela senza valorizzazione. Lei che ne pensa?
Purtroppo nel nostro Paese hanno prevalso per molto tempo miopi interessi speculativi.
Si è costruito dove non si doveva costruire e lasciando libero sfogo all’abusivismo, devastando così molte parti di un territorio che nel passato veniva celebrato come “il giardino d’Europa”. Nel futuro bisognerà pensare ad abbattere molte di queste nefaste brutture, che soffocano siti di rilevante interesse culturale e paesaggistico.
Anche nei Castelli Romani, vaste zone sono state compromesse da un’edilizia selvaggia, poco o male pianificata, importando a ridosso dei centri storici, soprattutto tra gli anni ’50 e ’80 del secolo scorso, una tipologia edilizia da periferia urbana, la palazzina multipiano, poi saturando di “villette”, mono-bi-tri-penta-familiari, aree di notevole pregio. Ma oggi la sensibilità sembra cambiata, soprattutto nelle nuove generazioni.
Tuttavia, a mio avviso, soltanto il passaggio di contesti naturalistici e beni storico-monumentali al patrimonio pubblico o a fondazioni di pubblico interesse ne può consentire la effettiva salvaguardia e conservazione, come fanno in Gran Bretagna il National Trust e l’English Heritage, in Italia il FAI.
Cosa le suggerisce la sua esperienza rispetto alla gestione di Palazzo Chigi e più in generale dei beni culturali nel prossimo futuro?
Per la gestione dei beni culturali credo sia importante attivare sempre più una sinergia tra pubblico e privato, coinvolgendo istituti bancari, imprenditori, aziende, università italiane e straniere (che così tanto amano l’Italia), anche con il sostegno di una normativa che favorisca sempre più investimenti nel settore.
Oggi l’istituto della “fondazione culturale” (come quelle che gestiscono il Museo Egizio di Torino o la Reggia di Venaria Reale) può aiutare anche gli enti pubblici a una più snella ed efficace valorizzazione dei propri beni culturali, superando le lentezze e gli intoppi della nostra macchinosa burocrazia, paralizzante anche in questo settore. Credo che anche per il palazzo di Ariccia questo debba essere il futuro.
Si pensi che la stessa Soprintendenza non riesce ad appaltare – per carenza di personale e difficoltà gestionali dettate dall’attuale contorta normativa sui lavori pubblici – i restauri delle Casine berniniane sulla piazza di Corte di Ariccia, con un finanziamento stanziato dal Ministero da circa quattro anni. Il valore del denaro con quanto accaduto a livello internazionale si è quasi dimezzato!