Il film della giornalista Giulia D’Innocenzi punta il dito contro l’ambientalismo di facciata della politica europea
Boicottato da molti circuiti cinematografici, lontano dai red carpet, dai flash dei riflettori e dalle riviste patinate. Come le vere rivoluzioni dovrebbero iniziare, Food for profit il documentario di Giulia Innocenzi e Pablo D’Ambrosi parte dal basso. Basta una richiesta via mail per poter proiettare il documentario dentro le mura di una scuola, associazione o università. Basta la voglia di sapere, capire e condividere. Basta per chiedere: “Stop sussidi pubblici agli allevamenti intensivi”.
Il documentario torna a parlare degli allevamenti intensivi a sei anni dalla pubblicazione di Dominion e ben diciannove dalla pubblicazione di Eartlings. Capisaldi della denuncia animalista e ambientalista con la voce narrante di Joaquin Poenix attore e attivista per gli animali in trincea da sempre contro lo specismo.
Il dito questa volta è puntato contro la politica europea che si riempie la bocca di ambientalismo, progresso e salute ma che di fatto foraggia con cospicue somme di denaro pubblico, anche cinquecento mila euro all’anno, stabilimenti che non sono allevamenti, ma lager per gli animali e giaciglio per possibili pandemie.
Come i polli che vengono sbattuti a morte contro le pareti dell’allevamento di Polesine in Italia, perché non abbastanza grandi rispetto a quello che è lo standard di crescita imposto dal mercato. Sono i polli broiler, animali che a poche settimane dalla nascita non riescono a stare sulle zampe per il grosso petto. È il frutto di incroci genetici e il fiore all’occhiello della richiesta delle tavole degli europei. Perché tutti vogliono il petto! Ma di pollo.
O come le mastiti bovine grosse come palloni da calcio che penzolano dalle mammelle di quelle che madri o animali non possono più essere chiamate. Meglio usare l’appellativo macchine per il latte del cappuccino del mattino. Una vita fatta di inseminazione artificiale, gravidanze senza pausa e figli strappati alla nascita. Se femmine stessa schiavitù, se maschi sgozzati dopo alcuni mesi di vita. Per poi finire pochi anni dopo, rispetto a quella che sarebbe la durata della vita naturale, macellate. Vite intere passate su pavimenti che per stessa ammissione degli operatori degli allevamenti non vengono lavati da anni. Quando il regolamento europeo prevede pulizie quotidiane o almeno frequenti per evitare possibili contagi.
Risorse idriche prosciugate per abbeverare i maiali degli allevamenti per poi scaricare a cielo aperto in modo impunito i liquami reflui causando inquinamento del suolo e contaminazione della falda acquifera. Siamo a Murcia, città della Spagna. Ma per alcuni politici, organi di controllo locali e istituzioni gli allevamenti intensivi non esistono e quindi neanche le conseguenze.
Non mancano perle di saggezza, degne se non del primo posto, ma comunque da podio nella gara della banalità del male come: “Anche la cioccolata fa male” o “anche il calcio fa male”. Sono le risposte date dagli allevatori colti in flagrante in Germania e messi con le spalle al muro dalle foto dei video girati all’interno dei propri allevamenti. Sono immagini che riprendono dipendenti, non veterinari, ad imbottire di antibiotici animali sani, infischiandosene della antibiotico resistenza che si crea negli animali e quindi negli allevamenti.
Nel 1906 uno scrittore americano, Upton Sinclair, denunciò nel libro La Giungla le condizioni di vita dei lavoratori dei macelli di Chicago. Erano i nostri antenati che disperati avevano abboccato all’amo avvelenato del sogno americano. Il romanzo descrive le condizioni lavorative all’interno di quella che si potrebbe definire una catena di smontaggio degli animali, lo stesso modello pochi anni dopo divenne la catena di montaggio delle macchine di Henry Ford. Il capolinea di questo filo di sangue porta a Treblinka, uno dei campi di concentramento per lo sterminio degli Ebrei. Una trama così bene descritta dalle parole di Charles Patterson nel libro Una eterna Treblinka.
Sono passati più di cento anni ma i metodi non sono cambiati, da Chicago ci spostiamo in Italia e anche questa volta a essere presi in giro sono sempre le persone più disperate, gli ultimi i ricattabili. Il documentario mostra appartamenti fatiscenti con dentro venti persone e zero diritti sul lavoro. Uso di sostanze per reggere il ritmo lavorativo serrato. Una corsa contro il tempo, di notte, l’obiettivo è quello di stipare, manco fossero valigie, il maggiore numero di tacchini nelle gabbie dei camion pronti a partire verso il macello.
Il documentario si chiude con una richiesta d’aiuto muta, come le bocche dei pesci nelle reti, perché scritta: “Stop sussidi pubblici agli allevamenti intensivi”.