Riflessioni sulla “economia che uccide”: tra le contraddizioni della politica e l’industria delle armi
In un’epoca segnata da conflitti armati sempre più gravi e globali, la figura di Carlo Cefaloni si distingue nel panorama degli attivisti per il disarmo. Residente a Ciampino, Cefaloni porta avanti la sua missione con una passione e un impegno che trascendono i confini locali, influenzando il dibattito nazionale e internazionale.
Laureato in Giurisprudenza, Cefaloni ha dedicato gran parte della sua vita professionale e personale alla causa del disarmo e alla promozione dei diritti umani. Coniuga la sua attività di scrittura e riflessione teorica a quella sul campo, partecipando attivamente a conferenze, iniziative e campagne che mirano a sensibilizzare l’opinione pubblica e a influenzare le politiche in materia di pace e sicurezza.
Castelli Romani presenta un’intervista esclusiva, in cui Cefaloni condivide le sue riflessioni, le sue esperienze e la sua visione per un futuro in cui la pace e la giustizia possano prevalere.
Il mese scorso hai ricevuto il prestigioso Premio Colombe d’oro per la pace, te lo aspettavi? Che cosa ha significato per il tuo percorso di persona impegnata su questi temi?
Diciamo innanzitutto che non è un premio che si vince partecipando a un concorso e quindi non era affatto atteso. Posso solo essere grato alla giuria autorevole che ha apprezzato il mio lavoro, come quello di Alessia Grossi de Il Fatto quotidiano e di Lorenzo Tondo, corrispondente di The Guardian, oltre al premio internazionale riconosciuto a Maurizio Landini.
In concreto, un premio del genere comporta un’ulteriore chiamata alla responsabilità personale.
Armi convenzionali, mine antiuomo, bombe al fosforo, ordigni nucleari… L’economia di guerra (che in questo periodo accumula profitti da capogiro) non può che portare alla guerra. Più che una drammatica e inaspettata frattura nei rapporti internazionali appare come una ineluttabile necessità di un modello economico?
L’accumulazione ossessiva degli armamenti, la crescita della spesa militare, che nel 2022 ha toccato il valore annuale di 2.240 miliardi di dollari, sono fenomeni ben conosciuti nella storia.
Molti analisti vi ravvisano una situazione simile ai “sonnambuli” del periodo che precedette il primo conflitto mondiale. Un tempo di pace prolungata e di grandi scoperte scientifiche che covava all’interno del continente europeo la pulsione verso l’orrendo mattatoio deciso, come sonnambuli sul precipizio, dalle classi dirigenti dell’epoca.
Siamo tuttora dentro quei nodi irrisolti della nostra cultura se nella retorica pubblica si afferma che quella “strage” di un’intera generazione non fu, in fondo, “inutile” perché cementò nel sangue e fango l’unità nazionale. Oggi si afferma che occorre avere, nella fedeltà all’alleanza militare di cui siamo parte, un ruolo strategico nell’assetto del mondo e difendere i nostri interessi in qualsiasi luogo essi vengano minacciati. Un segnale del peso sempre più decisivo del complesso militare industriale inteso, come da famoso discorso di Eisenhower del 1961, come coacervo di poteri in grado di minacciare la democrazia e incidere anche sulla vita interiore di popoli e persone.
In uno scenario dove domina la paura crescono i fatturati delle società belliche ma il loro impatto sull’occupazione, diversamente da quanto si vuol far credere, non è affatto paragonabile a quello della produzione civile collegata, ad esempio, alla priorità della transizione ecologica che garantisce maggiori post di lavoro e innovazione tecnologica.
L’ideologia della guerra lascia sguarnito il vero fronte da presidiare che è quello dell’autodistruzione dell’umanità.
L’Italia ripudia la guerra. Anche alla luce dei conflitti in Ucraina e in Palestina quale attualità può avere l’articolo 11 della nostra Costituzione?
Esiste notoriamente un’interpretazione di alcuni costituzionalisti e di una crescente parte della classe politica che relativizza il principio del ripudio della guerra. Dobbiamo invece alle lavoratrici e lavoratori obiettori di coscienza alla produzione bellica se l’Italia ha applicato quel principio con la legge 185/90 che vieta l’invio di armi ai Paesi in guerra e/o che siano contrari ai diritti umani. Una norma aggirata in tanti modi, costantemente sotto attacco e che ora potrebbe essere cambiata in peggio come auspicato dai vertici dell’Associazione delle imprese della difesa e dello spazio.
Di fatto da decenni si è consolidata, in maniera trasversale, una linea di politica industriale che ha portato società controllate dallo Stato, Leonardo ex Finmeccanica in primis, a dismettere asset strategici come energia e trasporti per concentrarsi nel settore delle armi, portando l’Italia a essere tra i primi 10 esportatori di sistemi d’arma a livello mondiale.
Solo una forte mobilitazione partita dalla Sardegna e condivisa da diversi soggetti nazionali e mezzi di informazione, tra cui Città Nuova dove scrivo, ha portato recentemente a interrompere l’invio di bombe e missili verso l’Arabia Saudita da parte di una società italiana controllata da una multinazionale tedesca. Divieto rimosso a maggio 2023 dal governo con la giustificazione “dell’attenuazione del rischio” dell’uso di tali prodotti nel conflitto dimenticato in Yemen.
È chiaro che il dilemma lacerante sulla fornitura di armi all’Ucraina ha inciso sul giustificare gli affari di questo settore. Anche la fornitura di armi all’uranio impoverito da parte dei nostri alleati non crea casi di coscienza politica così come non è affrontati il nodo dei nostri rapporti militari con gli attori del conflitto in Medio Oriente che andrebbero perlomeno ridiscussi davanti ai crimini di guerra in atto.
Tra i nostri politici molti si dichiarano cattolici. Come possono conciliare l’adesione a una fede e le scelte di belligeranza più o meno esplicita?
Esiste un reale dilemma sulla possibilità della resistenza nonviolenta. Ma c’è qualcosa che viene prima. Il vero ripudio della guerra è, infatti, una questione che deve ancora essere affrontata seriamente dalla comunità cristiana davanti alle tante giustificazioni dei conflitti nella storia recente.
La denuncia dell’inutile strage da parte di Benedetto XV era rivolta ai capi delle nazioni ma non svincolava dall’obbedienza dei sudditi alle “autorità legittime”. Scenario che si è riproposto nel secondo conflitto mondiale dove l’Italia ha combattuto fino al 1943 assieme ad Hitler.
Non credo, nonostante la retorica delle commemorazioni, che oggi sia condivisa da molti la lettera di Don Milani ai cappellani militari e poi ai giudici. La posizione esplicita e controcorrente di papa Francesco sulla pace non è ancora condivisa profondamente all’interno della Chiesa.
Per questo motivo è importante il lavoro che si porta avanti per superare tale contraddizione a partire dalla richiesta pressante di adesione dell’Italia al trattato Onu di abolizione delle armi nucleari. Francesco ne condanna non solo l’uso ma anche il possesso. Nel nostro Paese ci sono decine di tali ordigni nelle basi militari di Ghedi (BS) e Aviano (PN) non tanto perché decisive a livello strategico (in caso di conflitto nucleare si conterebbero milioni di morti nei primi minuti in Europa), ma per la fedeltà atlantica di cui sono espressione.
Potrà sembrare strano ma nel 1949 non erano pochi (si pensi a Dossetti o a Gronchi) i democristiani refrattari all’adesione alla Nato nella previsione di tali scenari di perdita di sovranità.
Oggi sembra blasfemo solo parlarne, mentre la vera apostasia, come diceva Thomas Merton, è quella di aver sostituito la fede in Dio con la (falsa) sicurezza offerta dall’idolo della bomba.
Giorgio La Pira invitava a cogliere i segni dei tempi dell’epoca nuova in cui ci troviamo a percorrere «sul crinale apocalittico della storia.
Quali i punti fondamentali per scegliere un percorso di costruzione di pace che rimetta al centro i temi di equità e giustizia sociale?
Occorre affrontare le questioni di politica estera e quindi di politica economica e industriale. Il ruolo distinto e autonomo dell’Europa e quello dell’Italia come ponte di pace nel Mediterraneo e non di piattaforma logistica della guerra.
Ma tutto passa da una scelta esistenziale profonda e da una certa idea di stare al mondo. Percepirsi, dopo le disillusioni delle generazioni più recenti, interiormente incapaci di incidere sulle scelte che contano, è in fondo la vittoria dei detentori dei poteri reali “dell’economia che uccide”, come l’ha definita Francesco.
Uno studioso che legittima e sostiene apertamente la guerra come Vittorio Emanuele Parsi afferma che questo è il tempo in cui viene chiesto di dire “per cosa siamo disposti a morire e a anche ad uccidere“. Penso che abbia ragione e io infatti sostengo come esempio i portuali di Genova che rifiutano di caricare le armi destinate ai Paesi in guerra assumendosi tutte le responsabilità in prima persona. Sono andato a Genova a portare sostegno a questi lavoratori assieme a tante associazioni, compresa la pastorale sociale nazionale e la diocesi di quella città. Lo stesso è accaduto sul porto di Napoli e Bari.
Segnali di qualcosa di nuovo che emerge e che bisogna solo riconoscere.